giovedì 14 novembre 2013

Gina

Bella non era, con quella faccia un po' quadrata da contadina del Polesine, ma sapeva truccarsi e l'aiutavano le gambe tornite da soubrette e il culo sbarazzino, sempre agitato di un allegro moto proprio.
Del resto aveva poca concorrenza, in tempi d'embargo con l'Africa. Le sue colleghe,l'Animalasch o la Topo Gigio già nel nome rivelavano un'estetica di nicchia, mentre con l'antifrasi Bambolina, si intendevano un paio di quintali di merce non pregiatissima.
Se nel regno dei ciechi, l'orbo è un re, Gina fu giustamente la regina dei marciapiedi novaresi.
Ma in quell'eterno autunno di provincia, dove i fumi della Montecatini, quello delle caldarroste e la nebbia, si mescolavano a coniugare, ante litteram, tutte le sfumature di grigio della nostra cittadina ipocrita in cui l'incenso dei Te Deum si fondeva col profumo dell'Upim delle Lolite di paese, dove la cappa austera del moralismo clerico-fascista
permeava ogni ambito della vita civile, dove gli orfanelli - col cranio rasato - seguivano compunti i funerali di signori del tutto sconosciuti, la Gina fu soprattutto l'ambasciatrice di un altro mondo, il mondo della notte, del peccato, della trasgressione.
Non si dissolveva, la Gina, allo spuntar del giorno, come le sue vampiresche colleghe, né tentava di passare inosservata.
Posteggiava la sua Innocenti cabriolet proprio davanti al "Circolo dell'Unione", lasciando a molti di quei signori tutti d'un pezzo, l'onere di far finta di non riconoscerla.
Era di per sé uno scandalo, quella macchina tanto vistosa, in città, di spider rosse, ne giravano poche. Oltre a quella della Gina, nel centro storico, si vedeva solo quella del dentista B. , specializzazione (e, si diceva, conto corrente) in Svizzera. Erano entrambe epifanie di disinvolte attitudini fiscali, ma ottenevano gradi diversi di sociale riprovazione.
Ai moralisti in servizio permanente effettivo, quell'ostentazione di lusso sembrava di cattivo gusto, anche perché rivelava un successo imprenditoriale che, per tariffe, sembrava allocare il core bussines tra la timorata borghesia cittadina.
Ticchettavano, dunque, sotto i portici, i suoi tacchi a spillo e sculettava il culetto irriverente, tra rari saluti di coraggiosi e marginali, e l'ostentata indifferenza dei più. Capitava che qualcuno, tra i denti, si lasciasse sfuggire un apprezzamento poco lusinghiero. E allora, apriti cielo! la Gina tirava fuori tutta la puttana che c'era in lei e sapeva essere sguaiata, volgare e aggressiva, come solo chi è pregiudizialmente dalla parte del torto, ha imparato ad essere. E i malcapitati, orecchie basse e viso paonazzo, se la battevano precipitosamente. 
Negli anni '70, Gina batteva nel viale della stazione e si scavava degli intervalli, per fare qualche capatina al bar dell'Oreste. Il posto era comodo per ubicazione, ma lei ci veniva soprattutto perché lì si sentiva tra amici. Conosceva tutti e poteva sedersi ai tavoli, per unirsi alle interminabili conversazioni notturne. Per lei era una cosa importante e aveva messo in conto, dato che il bar era un notorio covo di estremisti, anche qualche supplemento delle attenzioni poco benevole della buoncostume.
Se la sera era fiacca, o cominciava a piovere, eravamo tutti attorno a lei, a sollecitarla a raccontarci qualche sua esperienza fuori dal comune. Recalcitrante, ma lusingata, Gina finiva per cedere e, senza mai far nomi, ci sciorinava un catalogo di perversioni bizzarre e, a volte, incredibili.
A quel tempo, la Gina voleva tremila lire, che erano soldi. Capitava che le chiedessimo se, nell'eventualità di ragranellare la somma, avremmo potuto essere suoi clienti. Naturalmente era assolutamente poco realistico ipotizzare di poter investire quella cifra e la domanda, era in sé un gioco erotico che bastava ad eccitarci. Gina lo sapeva benissimo, ma fingeva di prenderla seriamente in considerazione, e quando concludeva, crollando la testa, con un diniego (siete minorenni e non voglio grane), non mancava di lasciarsi sfuggire un sospiro, come a dire che - peccato! - sarebbe piaciuto anche a lei. E il nostro tasso di umidità saliva.
D'estate ci trovavamo alla piscina comunale, in tempi in cui una complicità da casbah vi aveva realizzato un porto franco di tutte le diversità, che nessuna legge potrà mai replicare.
Le piaceva, allora, venirsi a sdraiare, per prendere il sole, tra noi studentini di buona famiglia e da lì dardeggiare, con smorfie e motti di disprezzo, i benpensanti che assumevano un'aria schizinosa.
Anticipatrice di molte mode, girava, già negli anni '80 con Whisky, un pincher (o un chiwawa) obeso e di cattivo carattere. Incontrarla era, in questi frangenti, un meraviglioso modo di farsi notare. Whisky non cessava un attimo di abbaiare istericamente, mentre Gina, che si avviava sul viale del tramonto, aveva ormai il dente avvelenato contro molti. Approfittava di questi incontri, per inveire, a voce alta, perché i passanti sentissero, ora contro questo, ora contro quell'esponente della vita politica, religiosa, bancaria o industriale cittadina.
Con questo atteggiamento voleva, lei che non faceva mistero di apprezzare alcuni aspetti della libera iniziativa, sentirsi complice di noi di sinistra, ma - allo stesso tempo - vi rifletteva le tante, troppe, amarezze, che aveva in un certo modo, accantonato negli anni della gioventù e che ora venivano prepotentemente a galla.
Aveva avuto un figlio, la Gina, un figlio desiderato, ma per il quale non aveva voluto barattare la propria libertà con una fragile rispettabilità. E con quel figlio, le cose non andavano bene.
Si ritirò per tempo, con un po' di fieno in cascina e andò a fare l'operaia alla Ego. Furono anni di solitudine. L'individualismo dell'età di Reagan aveva distrutto la nostra vita sociale e tutti si erano chiusi in casa, davanti alla TV. E alla TV, Gina andò a raccontare la sua solitudine.
Si era comprata una casa in corso Vercelli, sopra un bar, dove spesso la potevi incontrare. Se ero in anticipo sull'orario di scuola, scendevo appositamente dall'autobus, per fare una chiacchierata. Nella zona era molto popolare e un partito politico le chiese di mettersi in lista per le elezioni del Comitato di quartiere.
Fu, naturalmente, la più votata, ma la sua coalizione, vincente, non la designò come presidente, preferendole una maestra.
Buona per prendere i voti, Gina era imbarazzante come esponente politico. Lei, che il presidente non ci teneva a farlo, fu comunque offesa dalle umilianti prese di distanza di chi aveva caldeggiato la sua candidatura. Si sentì usata, come mai l'era capitato di sentirsi usata, al tempo del marciapiede.
Adesso Gina è tornata, a un anno dalla morte, alla ribalta delle cronache, per aver lasciato in eredità, la sua sostanza, a un opera pia.
Non è perché ha restituito parte del bottino - cosa che, sono certo, non farà il dentista B. - che chiedo che le sia assegnato, alla memoria, il titolo di Novarese dell'anno.
Chiedo che le venga assegnato perché con la sua presenza ha contribuito, più di ogni altro sussidio, alla modernizzazione e sprovincializzazione dei costumi di questa noiosa città padana. Motivi culturali dunque, e per le stesse ragioni vorrei salissero sul podio altri due illustri scomparsi: Luigi Roverta e Gianni, la Gianna, Maltagliati, coraggiosi esponenti della comunità gay cittadina del dopoguerra.

Ho incontrato Gina su un autobus, qualche giorno prima della sua morte. Stava andando a rinnovare l'abbonamento per una nuova stagione del Novara Calcio, che non avrebbe potuto seguire.
Gina è una delle poche donne con cui ho avuto un rapporto in cui non ho niente da rimproverarmi. 
Nessun rimpianto, dunque, se non il rovello di non aver fatto di tutto per ragranellare quelle famose tremila lire.