venerdì 10 gennaio 2014

Jack Clemente

Jack Clemente nasce a Novara nel 1926. Dopo la guerra fu uno dei primi amici novaresi di mio padre, scaraventato tra le nostre nebbie, dalla natia Sicilia per lavorare al Donegani. Fu lui a presentargli mia madre.
Raffinato intellettuale, Jack era in fama di omosessualità e per tale ragione era stato più volte pubblicamente schiaffeggiato dalle camicie nere locali.

Ma anche nella neonata democrazia, la città di provincia doveva essergli rimasta stretta per cui, nel 1952, ormai terminati gli studi all'Accademia di Brera, emigrò a Parigi.
L'anno successivo, la sua prima esposizione personale alla parigina Galerie de la Muette e alla milanese Apollinaire.
Nel 1957 espone al  New Art Centre di Londra.
Clemente è morto nel 1974 a Milano. Recentemente la galleria Gariboldi di Bergamo ne ha presentato un'interessante retrospettiva.



giovedì 2 gennaio 2014

Capodanno 1980

II 31 dicembre 1979, un decennio da tempo agonizzante tirò infine le cuoia. Ne uscivamo con un bel bottino: la coppia aperta, la militarizzazione del conflitto, la macrobiotica, le radio libere, lo sballo e l'aggregazione giovanile.
Allora un centro sociale come lo si intende adesso non c'era. Per noi, andare al centro, significava trovarci in città, un centro sociale, e talvolta asociale, all'aperto. Se già c'erano, i nuovi tempi avevano cominciato in incognito, nulla sembrava cambiato.
I ceti più disparati continuavano a convivere nel cuore della città. Nei palazzi, che in un estremo sussulto di patriziato conservavano ancora il nome di antichi proprietari, la signorile scala A, tollerava successive più modeste lettere dell'alfabeto, con i cessi sul ballatoio. Le case del Comune, ancora esentate dal non far sfigurare la ventura riqualificazione del quartiere, esibivano nello scenario di un antico e fascinoso degrado, esemplari irripetibili di fauna umana.
Accanto ad onesti lavoratori, convivevano satiri destinati al misticismo, disertori del Piave, con occhi liquidi di miseria e autocommiserazione, nubili inclini a vendicare col suicidio un destino immacolato tradito da imprevedibili circostanze, inimitabili padri di famiglia che conducevano all'altare figlie in acerba ma improcrastinabile età da marito, senza essersi concessi mai un giorno di onesto lavoro retribuito o un'assenza ingiustificata dall'osteria.
Figure mitologiche, scivolavano ancora in quegli umidi e scuri androni. La lingua di camaleonte del Chille, il collo taurino del Luison, l'umida mano di polipo del Seson, il lamento da muezzin del Savuneta, c'erano, o sembravano esserci ancora, in quel tempo che pareva essere un' estrema infanzia del mondo, o di noi stessi. In quell'angolo, tra le rovine di immaginari monumenti, ci ritrovavamo per travestire da resistenza ciò che era solo la sopravvivenza. E non ci fu per tutti.

A un tiro di schioppo dal via, non mancavano le osterie; pur orbati, per infame decisione clericale, della Canonica, avevamo delle alternative: impavida resisteva la Cristina, in largo Cavallazzi, più giù, Lo Sport (con alloggio) non si era ancora trasformato in pizzeria, due Trattorie d'Asti convivevano in via Magnani Ricotti, nella piazzetta del Santa Lucia c'era L'osteria dell' Annetta , girando a destra avevamo un'assaggiatoria vini e liquori, microscopica ma ben fornita: Andando verso la stazione, oltre al Circolo XXV Aprile, in vicolo Montariolo trovavi un Circolo Turati. Procedendo lungo corso Italia, se ancora non c'era più il 2 Spade, contiguo trovavi il locale della Luigina, superatolo potevi girare a sinistra, per andare al Pozzo o proseguire per l'Associazione Italiana Antifascisti, alla Barriera Albertina. In questi antri si nascondeva la varia Umanità.
E quanta ce n'era: sedicenti imbianchini, ferrovieri scapoli, contabili con pensioni kafkiane, partigiani immaginari, tubercolotici dimessi dal sanatorio, vagheggini benestanti, ex mungitori, panettieri insonni, giocatori d'azzardo, innamorati senza speranza, profughi giuliani, galeotti in libertà provvisoria, prostitute attempate, truffatori smascherati, magnaccia in disarmo, omosessuali non dichiarati, ed altro ancora.
Ma soprattutto onesti ubriaconi cui la rabbia o la malinconia sembravano aver gonfiato il cuore e rispettato il fegato. Ma non è così per tutti. Seduto al tavolo di una trattoria, mentre la generosità della Luigina tenta di venire a patti con le crude regole del commercio, Mauro,imbianchino, musicista e dipsomane, porta dignitosamente a termine la sua cirrosi epatica. Lascia una madre anziana, moglie e figli biondi e esili, il ricordo della loro ultima vacanza a Rimini : i pochi soldi smarriti,la giornata al mare trascorsa su una panchina. Mentre si anticipa un sorso della incombente eternità, attorno a lui, tra ladri di biciclette e artisti scontrosi, uno dei pederasti più brutti del mondo, con un aspetto igienico complessivamente inquietante, serve con brio ai tavoli, sussurrando agli avventori orripilanti proposte. Anche lui ne ha ancora per poco.

La derattizzazione cominciò ai Quartieri Spagnoli, e poiché i topi si dimostrarono insensibili ad ogni ingiunzione di sfratto, si pensò bene di lasciar loro le case, allontanandone gli inquilini. Il centro città cambiò volto, cominciarono deportazioni di massa che nuovi interessi fondiari trasformavano in odissea: S. Rocco, Rizzottaglia, S. Agabio. La concentrazione del disagio emigrava col variare dei prezzi dei terreni.
Il centro ristrutturato fu riservato a uffici e studi professionali, le poche case d'abitazione rimaste cambiarono la tipologia di destinazione.
L'ingombrante presenza di un incompiuto dopoguerra che ancora batteva cassa alla pubblica assistenza, fu ridotto alla residuale e innocua testimonianza delle case del Comune, ben mimetizzate, del resto, nella generale ristrutturazione.
Un fallimento levantino trasformò in case di fantasmi l'altro lato del centro: dal baluardo a via Negroni.
Private del loro humus, quasi tutte le vecchie osterie morirono come piante inaridite. Anche i bar adattarono gli orari alla mutata situazione . Le provvidenze strappate all'avidità dei poveri si trasformavano in versatili buoni mensa.
La città era morta, un sindaco socialista, che era stato povero, si congratulò di questo volontario e nordico coprifuoco.
Paradossalmente, gli emuli del barone Haussmann un passage lo costruirono, anzi lo cominciarono: sventrarono il bar 900, e la trattoria del Pozzo. E lì si fermarono. Anche fuori dal centro storico cominciò la pressione per spingere all'estrema periferia gli insediamenti popolari. Ultima a cadere, fu la Bellaria.
Sulle macerie di quell'espugnato Alcazar, nel parchetto predisposto allo stupro che ora le ricopre, ancora si aggira il fantasma di una femmina dal fascino evidentemente segreto, arcana ninfa primigenia di una indecifrabile e secolare cosmogonia che ha donato alle scienze psichiatriche intere generazioni di misteri.

Intanto noi, orfani del nostro proletariato vagabondo, derubati di quei brandelli di esistenza disperata che consolavamo e che ci consolava, incapaci di tornare a più solidi riferimenti, privati di tanti alibi che avevano velato la nostra nudità degna dell'indegnità di un re, ci ritrovavamo, come acrobati all'improvviso senza rete, nell'agnizione subitanea e panica di un vuoto che avevamo finto di non intravedere tra quelle maglie sottese a debole protezione.
Cominciarono anni difficili.
Avevamo bisogno di un nemico, e lo avevamo perso di vista, poco o niente eravamo riusciti a fare per contrastare l’ntervento socialmente destrutturante sulla città, e ugualmente ininfluente era stato il nostro intervento sulle trasformazioni dei processi produttivi che teorizzavano la perdita di peso della classe operaia, sui fascisti non potevamo contarci, malgrado la truculenta disponibilità che avevano dimostrato in una faccenda familiare, nel quotidiano rimanevano sporadici e un pò timidi.
Schiacciati tra l'unità nazionale della sinistra storica, e la deriva militare di quella più radicale, ne uscivamo stirati come capita talvolta a Wilcoiote.
Ma siccome di un nemico avevamo bisogno, ce lo cercammo tra di noi.
Restò la Cristina, unica Tortuga di un mare sempre più burrascoso, il solo porto franco dove una relativa sobrietà diurna garantiva l'armistizio. Ma nelle notti burrascose del Ramlin, le sberle volavano.
Venivano a galla ruggini recenti ed antiche, per capire bisogna ricominciare dal principio, e chiamare le cose con il loro nome.