seconda passeggiata

ALBERTINE SCOMPARSA E RITROVATA

Appeso in una rientranza della parete, Ancora un bacio di Mario Nunes Vais potrebbe nuovamente sfuggire ad un visitatore frettoloso.
E dico nuovamente perché questo quadro lo troviamo pubblicato sul volume dedicato al Novecento della storia dell’arte di Einaudi, con una didascalia che ne denuncia come “sconosciuta” la collocazione. Sorgono naturalmente dei dubbi sull’efficace mappatura e tracciabilità dei nostri beni culturali.
La latitanza dell’opera di Nunes Vais, che supponiamo durata per tutto il lungo periodo di chiusura della galleria, ci ha suggerito l’accostamento con una famosa fuggitiva della letteratura, non fosse altro che per il fatto che questi figurini dalle pronunciate crinoline sotto il vitino di vespa e con tanto di parasole, evocano immediatamente, in un immaginario pressoché collettivo, vecchie scatole di biscotti Lazzaroni, o proustiane jeunes filles en fleur.
Naturalmente, come si vedrà, c’è anche una ragione più calzante che ci spinge a questo raffronto.
Ora, però, c’è da aguzzare la vista, giacché l’associazione d’idee ci indurrebbe a credere frettolosamente che il destinatario di quell’ultimo bacio sia un uomo che indifferibili circostanze della vita sottraggono momentaneamente all’affetto dell’ amata. Un altro immancabile accessorio – la veletta – ci svela però che al di là del finestrino c’è un’altra donna. Ecco qua Albertine, dunque. Ma non è così.
Perché, se osserviamo con più attenzione, sgombrato l’animo dal primitivo giudizio indotto da un’errata percezione globale della situazione, vediamo bene che nulla d’appassionato vi è in quel bacio, se mai segnato da un’ombra di sgomento.
È la mamma. La mamma che riparte dopo una visita alla figlia sposata che ora vive, come impone anche il codice civile, dove il marito ha posto la propria residenza. Una missione pia e doverosa, ma anche controproducente, che immancabilmente suscita un generale magone:
bella! Oh bambina, o sorellina, o nuora,
o sposa, io vedo tuo marito, sento,
oggi, a chi dici mamma, a una signora;

Quando Marino Moretti va a Cesena in visita alla sorella novella sposa, il chiavistello della gabbia, talvolta dorata, del matrimonio cattolico e borghese mostra già segni di usura, ma ancora per molto tempo sarà difficile evaderne eludendo le stigmate della riprovazione sociale e l’allure della perversione.
Nell’ultimo quarto del xix secolo, quando Nunes Vais dipinge questa scena, l’Europa è, infatti, scandalizzata da un’Antigone domestica, Nora, che alla subitanea agnizione della mediocrità del marito Helmer, fa seguire l’altrettanto immediata decisione di abbandonare la coniugale casa di bambola.
A rivelare il limitato orizzonte di vedute di Helmer è una questione di soldi, che a quei tempi, quando un bancarottiere difficilmente rinunciava al beau geste di farsi saltare le cervella, era anche una questione di onore.
L’evocazione dell’onore in contesto coniugale, induce ancor oggi, in noi compatrioti di Brancati e del codice Rocco, il fastidioso pensiero delle corna, ma in quello scorcio d’ottocento il perturbante assillo era condiviso dall’intero vecchio continente.
Nora, però, all’adulterio non ci ha mai neppure pensato, anzi è talmente innocente che fa persino fatica a discernerne l’ipotesi – che le pare poi ridicola – nei discorsi allusivi dell’amica Linde e riceve con autentica costernazione la confessione del sentimento che per lei nutre Rank, il vecchio e ora non più rassicurante amico di famiglia. 
Eppure i provvedimenti che il marito vara immediatamente nei suoi confronti sono quelli tipicamente riservati, almeno in un certo livello sociale, alle mogli fedifraghe. In primis, naturalmente, l’interdizione all’educazione dei figli.
Tutto il testo di Ibsen è costruito sulla falsariga di un dramma della gelosia, e qui arriviamo (finalmente) ad Albertine.
Gli abbandoni di Albertine e Nora sono infatti preceduti da dialoghi, che si vorrebbero chiarificatori, condotti con uno schema del tutto speculare: in entrambi il maschio mette in atto quella condotta, tipica del suo sesso in determinati frangenti, che consiste nell’anticipare – per condannare, in Proust; per assolvere, in Ibsen – le risposte altrui alle proprie domande, facendo ricorso a un supposto sapere destinato a svelarsi come grossolanamente erroneo, fondato com’è sulla fragilità del principio d’induzione. Qui, a farci la figura meno meschina è, in definitiva, il narratore della Recherche, a riprova che, in taluni casi, la malafede è un pregio.
L’innocenza di Nora vale almeno a salvarle la pelle, giacché la condanna per le adultere è pur sempre la pena di morte che le aristocrazie (almeno a nord di un certo parallelo) affidano al destino, mentre il proletariato vi adempie in proprio.
Albertine non sfugge alla Moira, e una tragica fine è di prassi per le sue consorti: muore di veleno Emma Bovary, di coltello periscono Carmen, Lulu e la Marie di Woizeck, gli stenti finiscono Manon. mentre una provvida tubercolosi si incarica di liquidare Marguerite Gautier (alias Violetta Valéry).
Nell’arco di tempo che va dal 1845 (pubblicazione di Woman in the Nineteenth Century di Margaret Fuller) al 1897 (quando Millicent Fawcett fonda la National Union of Women's Suffrage) in letteratura scoppia una vera e propria epidemia di relazioni illecite.
L’irruzione nello spazio pubblico della donna mette in difficoltà il maschio che reagisce volgarizzando con un calambour un’alterità imprevista e imbarazzante (alterum – ad alterum). E il senso è chiaro: la donna non può essere se non in relazione all’uomo, così come ben illustra il dettato biblico relativo alla costola d’Adamo. Non può dunque essere altro, se mai, di un altro. 
Così l’antropologia dell’adulterio si evolve: da vizio connaturato al degrado morale dei bassifondi urbani (Bruckner), a prassi di culture ferme allo stadio prelogico (Mallarmé), a esito dell’azione pedagogica di perversi pigmalioni (Wedekind), fino a diventare, con Flaubert, banale rimedio all’insoddisfazione piccolo-borghese. E ad ogni fattispecie corrisponde un adeguato livello di giudizio morale.
Il melodramma – Verdi (1853), Massenet (1856), Bizet (1875), Puccini (1893) –  si incarica di diffondere anche a livello  popolare un ethos censorio e menagramo rispetto a quella sessualità femminile che non identifica nella maternità il proprio appagamento.
Anche quando, nella temperie di un’Austria ormai non più felix (Alban Berg assiste nel 1905 alla primade Il vaso di Pandora messa in scena da Karl Kraus) la questione si complica -  estendendosi al conflitto tra natura e cultura - e assume toni critici nei riguardi della morale borghese, la morte resta l’immancabile catarsi in cui si sopiscono le contraddizioni suscitate da ciò che viene vissuto in ogni modo in maniera ambivalente.  

Curiosamente solo Madame Bovary sfugge alla messinscena del teatro musicale ( i tardi tentativi di Emanuel Bondeville, 1951, Guido Pannain, 1955 e Heinrich Sutermeister, 1961 hanno lasciato scarse tracce. Si è recentemente cimentato con questo soggetto l’olandese Klaas Ten Holt).
Ed ecco ora, appesa sulla parete di sinistra, una sua epigone ritratta da Segantini: è Luisa Violini Tacchi.
Ritratto di donna malata , questo il titolo della tela, dipinta attorno al 1880. Di cosa soffra la donna non è dato sapere.
Siamo comunque negli anni in cui Koch scopre il bacillo della tubercolosi e Carlo Forlanini mette a punto la terapia del pneumatorace. La tisi ha un picco epidemiologico che le aggiudica l’appellativo di male del secolo.
Gli zigomi sporgenti e gli occhi cerchiati potrebbero confermare la diagnosi, mentre il colletto alto potrebbe mascherare   l’ingrossamento dei linfonodi, così come un velo di cipria potrebbe nascondere i pomelli rossi.
Ma anche il bovarismo, dopo Jules de Gaultier, è ormai considerato una malattia, confinante con quell’isteria di cui si occupano Charcot e Freud.
Del resto i due stati patologici non si escludono a vicenda, anzi: Susan Sontag ha mostrato come la tisi fosse particolarmente disdicevole perché in qualche modo imputata a un eccesso di sensualità del soggetto che ne era affetto.
In ogni caso Segantini si sarebbe ben guardato da esprimere, anche solo larvatamente, giudizi morali, giacché la signora in oggetto è l’amante di Vittore Grubicy de Dragon, il quale, prima di diventare egli stesso pittore e critico d’arte, è, con il fratello Alberto, titolare dell’omonima galleria a cui il pittore trentino deve gran parte della propria fortuna commerciale.
Il ménage à trois trova, a supporto della tolleranza ideologica garantita dal milieu della tarda scapigliatura lombarda, solide ragioni economiche.
Per Benveniste l’analogia tra matrimonio e patrimonio è una simmetria esterna e nessuna correlazione si può stabilire tra queste fondamentali istituzioni indoeuropee, ma il senso comune ce ne suggerisce l’intreccio e ci rivela, in senso più ampio, un nesso crescente tra morale sessuale e censo.
Tornando ora verso il corridoio, per proseguire la visita, ci troviamo di fronte a un quadro che, come una ventata di aria fresca, ci strappa da certe crude riflessioni ingenerate da soverchio realismo, restituendoci uno scampolo di donna angelicata.
È il Ritratto di giovane donna di Daniele Ranzoni. Dipinto nei primi anni ’60 del xix secolo, traduce in immagine il senso dell’en fleur proustiano, fotografando l’attimo esatto in cui l’infanzia confina con l’età adulta.
È il momento in cui, essendo ancor tanto bambina, la donna è più donna che mai, mantenendo integri, nella costituzione della propria femminilità, tutti quei sogni di fanciulla che la conducono a fantasticare di assolute ed eterne dedizioni.
Sono, in genere, chimere destinate a  crudele disinganno nell’inevitabile momento in cui viene abbandonata la variopinta livrea del corteggiamento, per  tornare a vestire la grigia uniforme della quotidianità.
Questo volto, ancora non segnato dagli esiti di un voltafaccia spacciato per virile e matura dedizione al principio di realtà che torna a imporsi sull’infantile intermezzo di un effimero carnevale, andrebbe addotto a difesa delle Emma Bovary del mondo.