giovedì 4 dicembre 2014
giovedì 20 novembre 2014
sabato 8 novembre 2014
la baracca Antenori
A Craveggia (Val d'Ossola), la baracca Antenori è una delle ultime sopravvivenze contemporanee di quella voglia di fare cultura democratica, che ha caratterizzato la storia di classe del novecento.
Dagli albori del secolo e con una ripresa, effimera ma significativa negli anni '70, l'iniziativa culturale "dal basso" ha efficacemente contrastato l'egemonia borghese in questo campo, riuscendo, più di una volta, ad influenzare la cultura alta, quella che vorrebbe scriversi con la c maiuscola.
Travolta dalla pervasività di vecchi e nuovi media, e soprattutto dalla pigrizia ingenerata dalla falsa percezione degli intellettuali come alleati naturali, l'aspirazione a scriversi da sé la propria storia e le proprie storie sembra ormai irreversibilmente scemata.
Ma piccole stalingrado di legno e cartone, resistono.
Scene, decori e burattini sono realizzati da Emanuele Antenori, la voce recitante e autore dei testi è Massimo Antenori, mentre la mamma, Bruna Dresti, ha confezionato i vestiti.
La scelta del teatro dei burattini si iscrive in una tradizione antica, era questa la forma di spettacolo popolare più diffusa e che veicolava spesso contenuti antagonisti. I burattinai del secolo scorso concludevano frequentemente i loro spettacoli nelle camere di sicurezza delle questure.
Ma si iscrive anche in un'altra, relativamente più recente tradizione, quella segnata dall'attività di Gianni Rodari e del suo Pioniere, fare sentire ai bambini un'altra voce, oltre a quelle di Walt Disney, della Silicon Valley e dei manga, cioè la voce, che non è mai neutrale, delle grandi multinazionali.
E' un settore che abbiamo completamente e colpevolmente abbandonato, forse per resa di fronte della superiorità tecnologica dell'avversario. Ma è sempre sorprendente osservare come i bambini, occasionalmente sottratti alla compulsività del Nintendo dall'ingenua caciara delle maschere, illuminino i loro volti di quella gioiosa meraviglia che è alla base di ogni conoscenza.
Dagli albori del secolo e con una ripresa, effimera ma significativa negli anni '70, l'iniziativa culturale "dal basso" ha efficacemente contrastato l'egemonia borghese in questo campo, riuscendo, più di una volta, ad influenzare la cultura alta, quella che vorrebbe scriversi con la c maiuscola.
Travolta dalla pervasività di vecchi e nuovi media, e soprattutto dalla pigrizia ingenerata dalla falsa percezione degli intellettuali come alleati naturali, l'aspirazione a scriversi da sé la propria storia e le proprie storie sembra ormai irreversibilmente scemata.
Ma piccole stalingrado di legno e cartone, resistono.
Scene, decori e burattini sono realizzati da Emanuele Antenori, la voce recitante e autore dei testi è Massimo Antenori, mentre la mamma, Bruna Dresti, ha confezionato i vestiti.
La scelta del teatro dei burattini si iscrive in una tradizione antica, era questa la forma di spettacolo popolare più diffusa e che veicolava spesso contenuti antagonisti. I burattinai del secolo scorso concludevano frequentemente i loro spettacoli nelle camere di sicurezza delle questure.
Ma si iscrive anche in un'altra, relativamente più recente tradizione, quella segnata dall'attività di Gianni Rodari e del suo Pioniere, fare sentire ai bambini un'altra voce, oltre a quelle di Walt Disney, della Silicon Valley e dei manga, cioè la voce, che non è mai neutrale, delle grandi multinazionali.
E' un settore che abbiamo completamente e colpevolmente abbandonato, forse per resa di fronte della superiorità tecnologica dell'avversario. Ma è sempre sorprendente osservare come i bambini, occasionalmente sottratti alla compulsività del Nintendo dall'ingenua caciara delle maschere, illuminino i loro volti di quella gioiosa meraviglia che è alla base di ogni conoscenza.
mercoledì 1 ottobre 2014
Oldnapping
«Allora,
siamo d'accordo, verso le dieci siamo sotto casa tua...»
«Ma
cheffa'? Babbii? – lo interruppe irritato Tano –
è un mese che me lo vai ripetenno. Lo sai con chi stai parlanno, o
no? »
Angelo
non insistette, Tano era ormai ubriaco e rischiava di dar di matto, e
quella sera era meglio non attirare l'attenzione, lo salutò con una
pacca sulla spalla e uscì dal locale.
Tano
era stato in galera, c'era stato a lungo e per delitti tanto
meschini, quanto sordidi. Ma, complice l'accento insulare e una
fisionomia patibolare, si dava arie di collaudato mafioso. Quella
sera, che aveva bevuto davvero tanto, quasi quasi ci credeva pure
lui. Continuò a bere.
All'alba,
si ritrovò seduto nel letto, svegliato da un urlo lancinante che
proveniva dall'interno della sua testa. La nebbia dell'alcol diradò
quel poco che bastava per ricordargli gli impegni assunti.
Si
imbarcò sulla Freccia del Sud che partiva dalla Stazione Centrale
pochi minuti dopo le otto. Mentre quelli che sarebbero dovuti essere
i suoi complici sequestravano la vecchia, era già a
Casalpusterlengo, ma il nodo in gola gli si allentò solo a
Fiorenzuola, per lasciare il posto a una sete spasmodica che avrebbe
finalmente soddisfatto a Bologna, con un bottiglione di Albana col
tappo a corona.
…
«Facia
'd merda d'un terün» mormorò Angelo riagganciando il telefono del
negozio. Il covo era sfumato all'improvviso e il commando, con la
sequestrata a bordo, andava su e giù per la città su una macchina
che dava segnali di cedimenti strutturali. La donna era calma, anzi
pareva divertirsi, ma a quell'età, poteva anche venirle un colpo.
Urgeva
un'alternativa e Angelo andava affannosamente lambiccandosi, mentre
tagliava tre fettine non troppo spesse di vitellone.
Ma
niente da fare, non riusciva a concentrarsi, gli venivano sempre in
mente quei disperati che girovagavano senza meta per le strade,
incrociando a ogni pie' sospinto pantere della questura e gazzelle
dei caramba.
Prima
di mezzogiorno, ringhiò alla moglie alla cassa, che aveva un impegno
e che si chiudeva in anticipo.
Mentre
la donna, uscita dalla porta sul retro, saliva al piano superiore
dove abitavano, Angelo tirò giù la claire e si fiondò nell'attigua
osteria, dimenticando la reciproca antipatia con l'oste Tugnin e i
tre mesi di pigione arretrata che questi gli doveva.
Un
campari col bianco lo aiutò a schiarirsi le idee, mentre
scartabellava un bisunto calepino tratto fuori dalla tasca posteriore
dei calzoni.
Sfogliava
le pagine nervosamente, crollando il capo, quasi a voler sconfessare
anticipatamente quello sforzo inutile, che andava facendo al solo
scopo di poter dire che nulla aveva lasciato di intentato.
Ma
ad un tratto le sopracciglia corrugate si distesero in
un'interrogazione, il dito che girava i fogli con moto pressoché
automatico, si arrestò e invertì il senso di marcia. Tornò
indietro alla ricerca di un nome che aveva sopravvanzato, ma che con
modalità subliminari aveva colpito il suo subconscio
«Ecco...»
disse fra sé.
…
Le
donne dell'età di Teresa non sono più giovani. Ma di molte, e direi
della gran parte, si può dire che siano entrate in quella stagione, anche piuttosto lunga, di matura bellezza che spesso le rende ancor più
desiderabili di quanto non lo fossero nel tempo della loro piena
gioventù.
Di
Teresa, ahimè, questo non lo si poteva dire. Sebbene i tratti del
viso rivelassero sbiadite tracce di quei lineamenti fieri, ma
volgari, delle bellezze selvagge e zingaresche, al presente, ormai,
ogni traccia di forza era irreversibilmente scomparsa, cedendo il
posto alla sola volgarità.
Consunta
da troppe gravidanze, continue delusioni, vita costantemente malsana
e mille tribolazioni era infine naufragata nella più completa
sciatteria, abbandono che spesso si imputa alla nighittosità, ma
che, nel suo caso, era invece da mettere in gran parte in conto alla
miseria che le aveva fatto mancare quell'ultimo appuntamento in cui
un buon dentista e un parrucchiere possono salvare qualcosa di cui
abbia senso aver cura.
E
poi, naturalmente, c'era la psiche, disturbata dall'eredità
dell'infanzia, dagli avvilimenti di una vita, e da popolari
automedicazioni.
Teresa
viveva in un limbo allucinato dove l'amore, i soldi e il vino erano
elementi di insiemi dai confini incerti e dalle mille intersezioni.
E
quindi fu per affetto, o per interesse, o per la voglia di provare
un'emozione analcolica, o per una combinazione di tutte queste cose,
che accettò la proposta.
Disse
di si, ma siccome, a modo suo, era stata sempre devota, non volle
affrontare l'impresa con l'ansia che poteva derivarle da conti in
sospeso con dio.
Perciò,
la mattina dopo, di buon ora, andò a confessarsi alla parrocchia di
San Giuseppe.
…
Don
Tarcisio era buon prete e buon cittadino. E in ogni caso, anche la
donna rapita era una sua parrocchiana, generosa per giunta.
Non
ebbe dunque esitazioni a recarsi di volata in questura, dove
comunque, rispettando il segreto sacramentale, non fece nomi.
…
A
quel punto al dottor Stromboli apparve chiaro che tutta la faccenda
si consumava nel breve rettilineo che andava dalla chiesa alla
cascina Bellaria e che aveva al centro, praticamente a fianco
dell'abitazione della donna rapita, il Circolo della Fratellanza.
Stromboli,
dei pregiudicati che bazzicavano quei dintorni, conosceva anche i
pidocchi che avevano in testa. Perché pidocchiosi lo erano
certamente: un milieu di ladri di polli e di biciclette, piccoli
truffatori, magnaccia di puttane decrepite, abitué delle violenze
domestiche e via dicendo.
Il
profilo di chi poteva aver ideato, pianificato e gestito un
sequestro, lì dentro mancava. Quindi si doveva pensare a un
esordiente.
E
questo lo preoccupava che, per simili crimini, è meglio poter
contare sulla freddezza dei professionisti, il panico dei dilettanti
poteva determinare esiti repentini e drammatici.
Bisognava
fare presto.
Al
circolo raccolse qualche voce, pettegolezzi su donne e debiti, com'è
di norma. Un vicediretore d'agenzia della Banca Popolare, lo
ragguagliò con maggior precisione.
Infine,
il padrone di un night seppe indicare la donna del demi monde con
cui, nel passato, era stato assiduo nel suo locale.
Così
il cerchio si strinse inesorabilmente su Angelo, il cervello – come
si usa dire – della banda, la cui macelleria era di fronte alla
casa della sequestrata, peraltro sua cliente.
...
Partirono
due volanti e mentre una andava a pizzicare il capo nel suo negozio,
l'altra si dirigeva a colpo sicuro al covo, dove sorprendeva tutta la
banda, e l'ostaggio in piena forma, che giocavano a carte.
giovedì 31 luglio 2014
Una buona azione
Dicono che fosse stata staffetta partigiana, ma che poi una lesione organica cerebrale, debellata chirurgicamente, avesse generato quello strambo rovesciamento.
Fatto sta, che girava per la città urlando periodicamente che si era governati da ladri e puttane e concludendo invariabilmente con l'invocazione venisse un re o un duce con cento legni per bastonarli tutti!
Era, o pensava di essere, la portinaia di uno stabile di via dei Cattaneo e quotidianamente non solo spazzava il tratto di strada prospiciente il portone, ma per zelo civico e ossessione compulsiva, finiva per ramazzare l'intera via, o quasi.
Una mattina passavo di lì con i miei due bambini, Matteo (all'anagrafe, Matteo Guevara) di 4 anni ed Enrico (che di secondo nome avrebbe dovuto chiamarsi Gemisto),di 2.
Erano entrambi biondi, con i capelli lunghissimi e i lineamenti delicati, sì che indovinarne il sesso era problematico.
Delia, così mi sembra che si chiamasse, quel giorno non era in vena di esternazioni, scopava la strada biascicando qualcosa di incomprensibile. In preda, evidentemente, ad un tormento interiore, aveva un'aria disperatamente triste e le lacrime agli occhi.
Ebbi un lampo di genio e, rivolgendomi ai bambini, che mi avevano sopravanzato di qualche metro gridai, Benito, Claretta, aspettatemi!
I bambini si arrestarono prontamente e si voltarono per scrutare l'ultima bizzarria del loro padre.
Mi girai anch'io, perché dietro di me avevo sentito il colpo secco della ramazza caduta a terra.
Delia era lì in mezzo alla strada, che ci guardava, con la bocca spalancata dallo stupore e un guizzo di felicità negli occhi.
Poi la bocca si ricompose in un sorriso, mentre ci benediceva: bimbi santi, papà santo!
venerdì 11 luglio 2014
Quand al cü diventa frust, paternoster vegnan giust
Se i mondiali dell'Italia fossero andati un po' meglio, scatenando i festanti caroselli di prammatica, il corpo della nazione si sarebbe dimostrato tollerante, se non solidale, con la chiassosa trasgressione.
Ci saremmo riscoperti un po' più latini e un po' meno mitteleuropei.
Ma è andata a male e la silenziosa elaborazione del lutto calcistico ha fatto da sponda alla lievitazione di un austero spiritualismo savonaroliano.
Fioccano ordinanze e coprifuochi contro gli schiamazzi notturni, e a sinistra, c'è chi approva e cerca di dare un contenuto di classe ai provvedimenti.
Gente che - insieme a me - ha a suo tempo passato tre giorni e tre notti di fila a far baldoria al Ramlin, scopre adesso che da una parte ci sono i proletari stremati dalla fonderia, necessitanti di ricostruir le forze per affrontare una nuova e dura giornata di lavoro, e dall'altra la jeunesse dorée che dissipa le notti al tabarin nella chiassosa atmosfera del peccato.
Dal punto di vista sociologico sarebbe facile dimostrare che, statistiche alla mano, non sono questi gli attori che intervengono nella realtà.
Lo scenario novecentesco dipinto dai sostenitori del coprifuoco non c'è più e nel centro cittadino non si consuma la contraddizione tra l'onesto operaio e il depravato figlio di papà, ma quella tra pensionati (magari un po' sordi) e giovani disoccupati, sottooccupati e precari.
Fermo restante che il pensionato ha il diritto di alzarsi alle sei del mattino, anche se non ha niente da fare, in ogni caso il contesto reale toglie un bel po' di forza e di drammaticità alla questione, rispetto a quello, ricalcato da Sue e Zola, che evocano i custodi di sinistra della pace.
A ben vedere alla base della questione c'è un conflitto generazionale che gli anziani sono decisi a stravincere.
Lo strumento ce l'hanno, il neoconformismo del pd renziano, potente blocco dei garantiti (pensionati e aristocrazie impiegatizie) che estende la sua egemonia a destra e a sinistra e che rischia di consolidarsi come regime.
Ci vorrebbe, dunque meno superficialità e meno astrattezza nell'affrontar le questioni, il tempo non è dalla nostra parte.
Comunque, certe cose sono facili da capire, se la legge che serve a chiudere un night club può servire a chiudere un centro sociale, allora vuol dire che è sbagliata.
Ci saremmo riscoperti un po' più latini e un po' meno mitteleuropei.
Ma è andata a male e la silenziosa elaborazione del lutto calcistico ha fatto da sponda alla lievitazione di un austero spiritualismo savonaroliano.
Fioccano ordinanze e coprifuochi contro gli schiamazzi notturni, e a sinistra, c'è chi approva e cerca di dare un contenuto di classe ai provvedimenti.
Gente che - insieme a me - ha a suo tempo passato tre giorni e tre notti di fila a far baldoria al Ramlin, scopre adesso che da una parte ci sono i proletari stremati dalla fonderia, necessitanti di ricostruir le forze per affrontare una nuova e dura giornata di lavoro, e dall'altra la jeunesse dorée che dissipa le notti al tabarin nella chiassosa atmosfera del peccato.
Dal punto di vista sociologico sarebbe facile dimostrare che, statistiche alla mano, non sono questi gli attori che intervengono nella realtà.
Lo scenario novecentesco dipinto dai sostenitori del coprifuoco non c'è più e nel centro cittadino non si consuma la contraddizione tra l'onesto operaio e il depravato figlio di papà, ma quella tra pensionati (magari un po' sordi) e giovani disoccupati, sottooccupati e precari.
Fermo restante che il pensionato ha il diritto di alzarsi alle sei del mattino, anche se non ha niente da fare, in ogni caso il contesto reale toglie un bel po' di forza e di drammaticità alla questione, rispetto a quello, ricalcato da Sue e Zola, che evocano i custodi di sinistra della pace.
A ben vedere alla base della questione c'è un conflitto generazionale che gli anziani sono decisi a stravincere.
Lo strumento ce l'hanno, il neoconformismo del pd renziano, potente blocco dei garantiti (pensionati e aristocrazie impiegatizie) che estende la sua egemonia a destra e a sinistra e che rischia di consolidarsi come regime.
Ci vorrebbe, dunque meno superficialità e meno astrattezza nell'affrontar le questioni, il tempo non è dalla nostra parte.
Comunque, certe cose sono facili da capire, se la legge che serve a chiudere un night club può servire a chiudere un centro sociale, allora vuol dire che è sbagliata.
giovedì 10 luglio 2014
lunedì 21 aprile 2014
lunedì 17 marzo 2014
Novara. Vescovado. Il volto ritrovato
Le comunità cristiane delle origini, come gli ebrei e i musulmani, osservavano il precetto biblico di non farsi immagini di dio.
Ma evidentemente il precetto avrebbe perso di senso se dio stesso avesse provveduto a fornire un'immagine di sé.
Secondo la tradizione questo avvenne a Camulia, piccola città della Cappadocia.
Zaccaria di Mitilene (fine del V sec.) attesta che un'immagine acheropita, cioè non dipinta da mano umana, sarebbe comparsa per condiscendenza al desiderio di tal Ipazia, che non avrebbe potuto credere in Gesù, senza averlo visto.
Come si vede, anche nella scelta del nome femminile, la leggenda è una raffinata polemica con il tendenziale empirismo della filosofia greca.
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Immagine dei santi Sergio e Bacco, VI - VII secolo (Kiev), Il volto di Cristo nel clipeo è considerata un'eco dell'antica Camulia |
Nel 574 Costantino II fa trasportare la Camulia a Costantinopoli.
Di quest'immagine si perdono le tracce a ridosso della controversia iconoclasta (726-834).
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Iconoclastia e scene della passione di Cristo, manoscritto 850-875 circa, Mosca. |
In compenso si parla diffusamente di un altro acheropito, il Mandylion di Edessa.
Secondo Giovanni di Damasco, toparca di Edessa, Agbar aveva commissionato al pittore Anania un ritratto di Cristo. Ma il pittore era in difficoltà a eseguire l'opera per l'eccesso di luce che il volto di Gesù emanava. A questo punto fu Cristo stesso a trarlo d'impaccio, avvicinando al proprio volto un velo che, miracolosamente, ne restò impresso dei tratti.
![]() |
Storie di Agbar, manoscritto, 1063, Mosca. |
La nicchia viene riaperta solo quattro secoli dopo. La lampada votiva che vi era stata murata, arde ancora e il suo calore ha determinato l'impressione, sulla lastra di chiusura, del negativo dell'immagine, il Keramion.
Nel 944 il Mandylion giunge a Costantinopoli.
![]() |
Il ritrovamento del Keramion. Cornice a sbalzo, San Bartolomeo degli Armeni, Genova. |
![]() |
Arrivo del Mandylion a Costantinopoli, ms XIII secolo, Madrid. |
Dal X secolo, repliche del Mandylion e del Keramion, vengono collocate, nelle chiese, all'apice degli archi a est e a ovest.
![]() |
Mandylion, affresco dalla chiesa di Sakli Kilise, Göreme, . |
![]() |
Mandylion e Keramion contrapposti, cattedrale del monastero di Mirozh. |
Il Mandylion resta a lungo accessibile per la venerazione e la riproduzione di copie, ma nel secolo XI cessa l'ostensione.
Nel 1204 la quarta Crociata si tramuta in guerra di conquista interna alla cristianità.
Costantinopoli è saccheggiata. Delle immagini acherotipe si perdono le tracce.
sabato 1 marzo 2014
nella basilica di san gaudenzio
![]() |
1 San Gaudenzio arriva a Novara da Ivrea. |
![]() |
2 Incontro a Novara di Sant'Ambrogio con San Gaudenzio. |
![]() |
3 San Gaudenzio spegne miracolosamente l'incendio della città. |
![]() |
4 San Gaudenzio invita il Clero nella Diocesi. |
![]() |
5 San Gaudenzio rende miracolose le acque, toccandole. |
![]() |
6 Morte di San Gaudenzio. |
![]() |
7 Il popolo visita il cadavere di San Gaudenzio che si mantiene intatto. |
![]() |
8 San Gaudenzio caccia il demonio da una matrona romana. Foto Zambruno Novara |
mercoledì 5 febbraio 2014
lunedì 27 gennaio 2014
martedì 21 gennaio 2014
venerdì 10 gennaio 2014
Jack Clemente
Jack Clemente nasce a Novara nel 1926. Dopo la guerra fu uno dei primi amici novaresi di mio padre, scaraventato tra le nostre nebbie, dalla natia Sicilia per lavorare al Donegani. Fu lui a presentargli mia madre.
Raffinato intellettuale, Jack era in fama di omosessualità e per tale ragione era stato più volte pubblicamente schiaffeggiato dalle camicie nere locali.
Ma anche nella neonata democrazia, la città di provincia doveva essergli rimasta stretta per cui, nel 1952, ormai terminati gli studi all'Accademia di Brera, emigrò a Parigi.
L'anno successivo, la sua prima esposizione personale alla parigina Galerie de la Muette e alla milanese Apollinaire.
Nel 1957 espone al New Art Centre di Londra.
Clemente è morto nel 1974 a Milano. Recentemente la galleria Gariboldi di Bergamo ne ha presentato un'interessante retrospettiva.
Raffinato intellettuale, Jack era in fama di omosessualità e per tale ragione era stato più volte pubblicamente schiaffeggiato dalle camicie nere locali.
Ma anche nella neonata democrazia, la città di provincia doveva essergli rimasta stretta per cui, nel 1952, ormai terminati gli studi all'Accademia di Brera, emigrò a Parigi.
L'anno successivo, la sua prima esposizione personale alla parigina Galerie de la Muette e alla milanese Apollinaire.
Nel 1957 espone al New Art Centre di Londra.
Clemente è morto nel 1974 a Milano. Recentemente la galleria Gariboldi di Bergamo ne ha presentato un'interessante retrospettiva.
giovedì 2 gennaio 2014
Capodanno 1980
II 31 dicembre 1979, un decennio da tempo agonizzante tirò infine le cuoia. Ne uscivamo con un bel bottino: la coppia aperta, la militarizzazione del conflitto, la macrobiotica, le radio libere, lo sballo e l'aggregazione giovanile.
Allora un centro sociale come lo si intende adesso non c'era. Per noi, andare al centro, significava trovarci in città, un centro sociale, e talvolta asociale, all'aperto. Se già c'erano, i nuovi tempi avevano cominciato in incognito, nulla sembrava cambiato.
I ceti più disparati continuavano a convivere nel cuore della città. Nei palazzi, che in un estremo sussulto di patriziato conservavano ancora il nome di antichi proprietari, la signorile scala A, tollerava successive più modeste lettere dell'alfabeto, con i cessi sul ballatoio. Le case del Comune, ancora esentate dal non far sfigurare la ventura riqualificazione del quartiere, esibivano nello scenario di un antico e fascinoso degrado, esemplari irripetibili di fauna umana.
Accanto ad onesti lavoratori, convivevano satiri destinati al misticismo, disertori del Piave, con occhi liquidi di miseria e autocommiserazione, nubili inclini a vendicare col suicidio un destino immacolato tradito da imprevedibili circostanze, inimitabili padri di famiglia che conducevano all'altare figlie in acerba ma improcrastinabile età da marito, senza essersi concessi mai un giorno di onesto lavoro retribuito o un'assenza ingiustificata dall'osteria.
Figure mitologiche, scivolavano ancora in quegli umidi e scuri androni. La lingua di camaleonte del Chille, il collo taurino del Luison, l'umida mano di polipo del Seson, il lamento da muezzin del Savuneta, c'erano, o sembravano esserci ancora, in quel tempo che pareva essere un' estrema infanzia del mondo, o di noi stessi. In quell'angolo, tra le rovine di immaginari monumenti, ci ritrovavamo per travestire da resistenza ciò che era solo la sopravvivenza. E non ci fu per tutti.
A un tiro di schioppo dal via, non mancavano le osterie; pur orbati, per infame decisione clericale, della Canonica, avevamo delle alternative: impavida resisteva la Cristina, in largo Cavallazzi, più giù, Lo Sport (con alloggio) non si era ancora trasformato in pizzeria, due Trattorie d'Asti convivevano in via Magnani Ricotti, nella piazzetta del Santa Lucia c'era L'osteria dell' Annetta , girando a destra avevamo un'assaggiatoria vini e liquori, microscopica ma ben fornita: Andando verso la stazione, oltre al Circolo XXV Aprile, in vicolo Montariolo trovavi un Circolo Turati. Procedendo lungo corso Italia, se ancora non c'era più il 2 Spade, contiguo trovavi il locale della Luigina, superatolo potevi girare a sinistra, per andare al Pozzo o proseguire per l'Associazione Italiana Antifascisti, alla Barriera Albertina. In questi antri si nascondeva la varia Umanità.
E quanta ce n'era: sedicenti imbianchini, ferrovieri scapoli, contabili con pensioni kafkiane, partigiani immaginari, tubercolotici dimessi dal sanatorio, vagheggini benestanti, ex mungitori, panettieri insonni, giocatori d'azzardo, innamorati senza speranza, profughi giuliani, galeotti in libertà provvisoria, prostitute attempate, truffatori smascherati, magnaccia in disarmo, omosessuali non dichiarati, ed altro ancora.
Ma soprattutto onesti ubriaconi cui la rabbia o la malinconia sembravano aver gonfiato il cuore e rispettato il fegato. Ma non è così per tutti. Seduto al tavolo di una trattoria, mentre la generosità della Luigina tenta di venire a patti con le crude regole del commercio, Mauro,imbianchino, musicista e dipsomane, porta dignitosamente a termine la sua cirrosi epatica. Lascia una madre anziana, moglie e figli biondi e esili, il ricordo della loro ultima vacanza a Rimini : i pochi soldi smarriti,la giornata al mare trascorsa su una panchina. Mentre si anticipa un sorso della incombente eternità, attorno a lui, tra ladri di biciclette e artisti scontrosi, uno dei pederasti più brutti del mondo, con un aspetto igienico complessivamente inquietante, serve con brio ai tavoli, sussurrando agli avventori orripilanti proposte. Anche lui ne ha ancora per poco.
La derattizzazione cominciò ai Quartieri Spagnoli, e poiché i topi si dimostrarono insensibili ad ogni ingiunzione di sfratto, si pensò bene di lasciar loro le case, allontanandone gli inquilini. Il centro città cambiò volto, cominciarono deportazioni di massa che nuovi interessi fondiari trasformavano in odissea: S. Rocco, Rizzottaglia, S. Agabio. La concentrazione del disagio emigrava col variare dei prezzi dei terreni.
Il centro ristrutturato fu riservato a uffici e studi professionali, le poche case d'abitazione rimaste cambiarono la tipologia di destinazione.
L'ingombrante presenza di un incompiuto dopoguerra che ancora batteva cassa alla pubblica assistenza, fu ridotto alla residuale e innocua testimonianza delle case del Comune, ben mimetizzate, del resto, nella generale ristrutturazione.
Un fallimento levantino trasformò in case di fantasmi l'altro lato del centro: dal baluardo a via Negroni.
Private del loro humus, quasi tutte le vecchie osterie morirono come piante inaridite. Anche i bar adattarono gli orari alla mutata situazione . Le provvidenze strappate all'avidità dei poveri si trasformavano in versatili buoni mensa.
La città era morta, un sindaco socialista, che era stato povero, si congratulò di questo volontario e nordico coprifuoco.
Paradossalmente, gli emuli del barone Haussmann un passage lo costruirono, anzi lo cominciarono: sventrarono il bar 900, e la trattoria del Pozzo. E lì si fermarono. Anche fuori dal centro storico cominciò la pressione per spingere all'estrema periferia gli insediamenti popolari. Ultima a cadere, fu la Bellaria.
Sulle macerie di quell'espugnato Alcazar, nel parchetto predisposto allo stupro che ora le ricopre, ancora si aggira il fantasma di una femmina dal fascino evidentemente segreto, arcana ninfa primigenia di una indecifrabile e secolare cosmogonia che ha donato alle scienze psichiatriche intere generazioni di misteri.
Intanto noi, orfani del nostro proletariato vagabondo, derubati di quei brandelli di esistenza disperata che consolavamo e che ci consolava, incapaci di tornare a più solidi riferimenti, privati di tanti alibi che avevano velato la nostra nudità degna dell'indegnità di un re, ci ritrovavamo, come acrobati all'improvviso senza rete, nell'agnizione subitanea e panica di un vuoto che avevamo finto di non intravedere tra quelle maglie sottese a debole protezione.
Cominciarono anni difficili.
Avevamo bisogno di un nemico, e lo avevamo perso di vista, poco o niente eravamo riusciti a fare per contrastare l’ntervento socialmente destrutturante sulla città, e ugualmente ininfluente era stato il nostro intervento sulle trasformazioni dei processi produttivi che teorizzavano la perdita di peso della classe operaia, sui fascisti non potevamo contarci, malgrado la truculenta disponibilità che avevano dimostrato in una faccenda familiare, nel quotidiano rimanevano sporadici e un pò timidi.
Schiacciati tra l'unità nazionale della sinistra storica, e la deriva militare di quella più radicale, ne uscivamo stirati come capita talvolta a Wilcoiote.
Ma siccome di un nemico avevamo bisogno, ce lo cercammo tra di noi.
Restò la Cristina, unica Tortuga di un mare sempre più burrascoso, il solo porto franco dove una relativa sobrietà diurna garantiva l'armistizio. Ma nelle notti burrascose del Ramlin, le sberle volavano.
Venivano a galla ruggini recenti ed antiche, per capire bisogna ricominciare dal principio, e chiamare le cose con il loro nome.
Allora un centro sociale come lo si intende adesso non c'era. Per noi, andare al centro, significava trovarci in città, un centro sociale, e talvolta asociale, all'aperto. Se già c'erano, i nuovi tempi avevano cominciato in incognito, nulla sembrava cambiato.
I ceti più disparati continuavano a convivere nel cuore della città. Nei palazzi, che in un estremo sussulto di patriziato conservavano ancora il nome di antichi proprietari, la signorile scala A, tollerava successive più modeste lettere dell'alfabeto, con i cessi sul ballatoio. Le case del Comune, ancora esentate dal non far sfigurare la ventura riqualificazione del quartiere, esibivano nello scenario di un antico e fascinoso degrado, esemplari irripetibili di fauna umana.
Accanto ad onesti lavoratori, convivevano satiri destinati al misticismo, disertori del Piave, con occhi liquidi di miseria e autocommiserazione, nubili inclini a vendicare col suicidio un destino immacolato tradito da imprevedibili circostanze, inimitabili padri di famiglia che conducevano all'altare figlie in acerba ma improcrastinabile età da marito, senza essersi concessi mai un giorno di onesto lavoro retribuito o un'assenza ingiustificata dall'osteria.
Figure mitologiche, scivolavano ancora in quegli umidi e scuri androni. La lingua di camaleonte del Chille, il collo taurino del Luison, l'umida mano di polipo del Seson, il lamento da muezzin del Savuneta, c'erano, o sembravano esserci ancora, in quel tempo che pareva essere un' estrema infanzia del mondo, o di noi stessi. In quell'angolo, tra le rovine di immaginari monumenti, ci ritrovavamo per travestire da resistenza ciò che era solo la sopravvivenza. E non ci fu per tutti.
A un tiro di schioppo dal via, non mancavano le osterie; pur orbati, per infame decisione clericale, della Canonica, avevamo delle alternative: impavida resisteva la Cristina, in largo Cavallazzi, più giù, Lo Sport (con alloggio) non si era ancora trasformato in pizzeria, due Trattorie d'Asti convivevano in via Magnani Ricotti, nella piazzetta del Santa Lucia c'era L'osteria dell' Annetta , girando a destra avevamo un'assaggiatoria vini e liquori, microscopica ma ben fornita: Andando verso la stazione, oltre al Circolo XXV Aprile, in vicolo Montariolo trovavi un Circolo Turati. Procedendo lungo corso Italia, se ancora non c'era più il 2 Spade, contiguo trovavi il locale della Luigina, superatolo potevi girare a sinistra, per andare al Pozzo o proseguire per l'Associazione Italiana Antifascisti, alla Barriera Albertina. In questi antri si nascondeva la varia Umanità.
E quanta ce n'era: sedicenti imbianchini, ferrovieri scapoli, contabili con pensioni kafkiane, partigiani immaginari, tubercolotici dimessi dal sanatorio, vagheggini benestanti, ex mungitori, panettieri insonni, giocatori d'azzardo, innamorati senza speranza, profughi giuliani, galeotti in libertà provvisoria, prostitute attempate, truffatori smascherati, magnaccia in disarmo, omosessuali non dichiarati, ed altro ancora.
Ma soprattutto onesti ubriaconi cui la rabbia o la malinconia sembravano aver gonfiato il cuore e rispettato il fegato. Ma non è così per tutti. Seduto al tavolo di una trattoria, mentre la generosità della Luigina tenta di venire a patti con le crude regole del commercio, Mauro,imbianchino, musicista e dipsomane, porta dignitosamente a termine la sua cirrosi epatica. Lascia una madre anziana, moglie e figli biondi e esili, il ricordo della loro ultima vacanza a Rimini : i pochi soldi smarriti,la giornata al mare trascorsa su una panchina. Mentre si anticipa un sorso della incombente eternità, attorno a lui, tra ladri di biciclette e artisti scontrosi, uno dei pederasti più brutti del mondo, con un aspetto igienico complessivamente inquietante, serve con brio ai tavoli, sussurrando agli avventori orripilanti proposte. Anche lui ne ha ancora per poco.
La derattizzazione cominciò ai Quartieri Spagnoli, e poiché i topi si dimostrarono insensibili ad ogni ingiunzione di sfratto, si pensò bene di lasciar loro le case, allontanandone gli inquilini. Il centro città cambiò volto, cominciarono deportazioni di massa che nuovi interessi fondiari trasformavano in odissea: S. Rocco, Rizzottaglia, S. Agabio. La concentrazione del disagio emigrava col variare dei prezzi dei terreni.
Il centro ristrutturato fu riservato a uffici e studi professionali, le poche case d'abitazione rimaste cambiarono la tipologia di destinazione.
L'ingombrante presenza di un incompiuto dopoguerra che ancora batteva cassa alla pubblica assistenza, fu ridotto alla residuale e innocua testimonianza delle case del Comune, ben mimetizzate, del resto, nella generale ristrutturazione.
Un fallimento levantino trasformò in case di fantasmi l'altro lato del centro: dal baluardo a via Negroni.
Private del loro humus, quasi tutte le vecchie osterie morirono come piante inaridite. Anche i bar adattarono gli orari alla mutata situazione . Le provvidenze strappate all'avidità dei poveri si trasformavano in versatili buoni mensa.
La città era morta, un sindaco socialista, che era stato povero, si congratulò di questo volontario e nordico coprifuoco.
Paradossalmente, gli emuli del barone Haussmann un passage lo costruirono, anzi lo cominciarono: sventrarono il bar 900, e la trattoria del Pozzo. E lì si fermarono. Anche fuori dal centro storico cominciò la pressione per spingere all'estrema periferia gli insediamenti popolari. Ultima a cadere, fu la Bellaria.
Sulle macerie di quell'espugnato Alcazar, nel parchetto predisposto allo stupro che ora le ricopre, ancora si aggira il fantasma di una femmina dal fascino evidentemente segreto, arcana ninfa primigenia di una indecifrabile e secolare cosmogonia che ha donato alle scienze psichiatriche intere generazioni di misteri.
Intanto noi, orfani del nostro proletariato vagabondo, derubati di quei brandelli di esistenza disperata che consolavamo e che ci consolava, incapaci di tornare a più solidi riferimenti, privati di tanti alibi che avevano velato la nostra nudità degna dell'indegnità di un re, ci ritrovavamo, come acrobati all'improvviso senza rete, nell'agnizione subitanea e panica di un vuoto che avevamo finto di non intravedere tra quelle maglie sottese a debole protezione.
Cominciarono anni difficili.
Avevamo bisogno di un nemico, e lo avevamo perso di vista, poco o niente eravamo riusciti a fare per contrastare l’ntervento socialmente destrutturante sulla città, e ugualmente ininfluente era stato il nostro intervento sulle trasformazioni dei processi produttivi che teorizzavano la perdita di peso della classe operaia, sui fascisti non potevamo contarci, malgrado la truculenta disponibilità che avevano dimostrato in una faccenda familiare, nel quotidiano rimanevano sporadici e un pò timidi.
Schiacciati tra l'unità nazionale della sinistra storica, e la deriva militare di quella più radicale, ne uscivamo stirati come capita talvolta a Wilcoiote.
Ma siccome di un nemico avevamo bisogno, ce lo cercammo tra di noi.
Restò la Cristina, unica Tortuga di un mare sempre più burrascoso, il solo porto franco dove una relativa sobrietà diurna garantiva l'armistizio. Ma nelle notti burrascose del Ramlin, le sberle volavano.
Venivano a galla ruggini recenti ed antiche, per capire bisogna ricominciare dal principio, e chiamare le cose con il loro nome.
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