sabato 21 febbraio 2015

Al scusal

Quando lavoravo in fabbrica, noi operai indossavamo la tuta, mentre gli assistenti mettevano il grembiule, lo scusal, e così li chiamavamo.
Ai ricoperti, biscotti col cioccolato, lavoravano soprattutto donne, lì feci l'apprendistato.
Lo scusal era un tipo mingherlino, quasi calvo, si diceva che avesse quattro figli. Aveva soprattutto sposato l'azienda, o sognava di sposarla. Di certo l'amava.
Era periodo di vertenza aziendale e ogni tanto il delegato di reparto metteva in bocca in fischietto e lanciava due o tre lunghi fischi.
A quel segnale, si incrociavano immediatamente le braccia e si interrompeva ogni attività.
La cosa era particolarmente divertente per me, che ero a fine catena, e potevo finalmente mollare quei pacchi di Togo che dovevo prendere ritmicamente tra le mani, in numero di sei e infilare nella scatola di cartone. Lestamente, che il minimo ritardo significava l'accumulo disordinato di pacchi sul bancale e il richiamo irritato dello scusal.
Li mollavo, dunque, e con visibile soddisfazione li vedevo allungarsi sul bancale, come tessere di un domino, per poi andare inesorabilmente a finire per terra, sparpagliandosi in ogni dove.
Correva allora trafelato, con un affannarsi un po' femmineo, lo scusal, a raccattare il prezioso bene aziendale e intanto, borbottava, quasi tra sé, che così si sarebbe finiti certo male e rivolgendosi alle donne, le invitava a meditare sul triste destino dell'Alemagna.
Sperava, in cuor suo, di aver un po' di ascendente sulle maestranze femminili, ma quelle, che per la maggior parte arrivavano da un altro fallimento, quello della Wild, sapevano per esperienza che farsi il culo in produzione e non lottare non era un buon metodo per difendere il posto di lavoro. E non se lo filavano.
Passai poi al turno di notte e, infine, mi licenziai e per un po' non lo vidi più, avendo a che fare, al suo posto con il severo, ma stimato Carrera, capo di tutti gli scusal del notturno.
Fu proprio appena dopo il licenziamento che lo incontrai di nuovo una prima volta.
Per raggranellare un po' di contante mi ero messo a fare il rilevatore del censimento e bussavo, porta a porta, per consegnare il questionario.
Capitai anche al suo domicilio, ma il nome sul campanello, nulla mi aveva suggerito, per cui fui molto sorpreso di trovarmelo davanti.
Ancora più sorpreso, ma non è il termine adatto, si dimostrò lui, che mi accolse con un urlo disperato, saltando all'indietro, le braccia levate a difendere il viso, mentre il presidio al bersaglio grosso veniva affidato a gamba e piede sinistri, opportunamente rattrappiti.
Capii che in fabbrica mi ero fatto la fama d'estremista e che il povero scusal aveva per un attimo creduto di stare per entrare nella cronaca nera di quegli anni di piombo.
Dissipammo l'equivoco, e passò molto tempo.
La volta dopo, fui io che sentii bussare alla porta di casa.
Lo riconobbi subito, per quanto fosse un po' invecchiato e ormai del tutto grigio nell'ancor più rada corona di capelli che incorniciavano un volto decisamente triste e stanco.
Non temetti per la mia vita, l'espressione del viso e la valigetta di vinilpelle mi avevano già fatto comprendere tutto.
Lo feci entrare.
Si lasciò cadere sulla poltrona come un uomo che ha percorso a piedi molti chilometri. Avevate ragione voi! sospirò.
Gli offrii un caffè e lui mi spiegò come lui e tanti suoi parigrado fossero stati, malgrado la fedeltà, le prime vittime di quella ristrutturazione contro cui, a suo tempo, avevamo duramente lottato in officina.
Sapeva che la stessa sorte l'avevano subita i silenziosi marciatori torinesi di Arisio e la sua fede nel padrone come reincarnazione della Provvidenza si era irrevocabilmente infranta.
Si intrattenne una mezz'ora. Non seppi mai quale merce propagandasse, né lui si sognò di propormela.
Ma se ne andò visibilmente sollevato, aveva bussato alla mia porta come un déraciné e se ne andava ormai arruolato tra i ribelli, in tal modo recuperando tutta la sua dignità sociale.
Non lo rividi più.

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